
È di questi giorni l’iniziativa di alcuni fedeli di Grottaferrata per una petizione al Papa affinché assicuri che la loro millenaria Abbazia di rito orientale resti affidata ai monaci basiliani. Tutti siamo convinti che questa sia un’iniziativa provvidenziale e nutriamo la speranza di una risposta positiva, anche se i monaci basiliani sono rimasti veramente in pochi e difficilmente potranno sobbarcarsi l’onere di una cura pastorale di tanto impegno.
Un numero sempre maggiore di parrocchie della nostra Italia sono affidate alla cura di un sacerdote straniero, o addirittura completamente sprovviste di Parroco, o gestite da Parroci che devono badare alla cura di due o tre parrocchie contemporaneamente.
È l’esito della crisi delle vocazioni: ci sono sempre meno preti, come ci sono sempre meno fedeli a messa.
Con la riflessione di questa settimana desidero affrontare la questione perché incontro costantemente persone preoccupate per la loro parrocchia e, frequentando la messa, incrocio sguardi smarriti di fedeli che non trovano più l’interlocutore adatto in parrocchia e perdono il gusto della liturgia domenicale. Si rischia l’incomunicabilità tra Chiesa e fedeli, anche se molti cercano di metterci una pezza emigrando di Parrocchia per la messa domenicale, alla ricerca di un sacerdote che parli un linguaggio comprensibile, o con cui dialogare. Un fenomeno, questo della migrazione parrocchiale, sempre più marcato – al seguito del parroco precedente, o di abbandono per sostituzione di parroco – che riflette forse anche la debolezza organizzativa dei laici nel contesto parrocchiale, dipendenti in toto dall’impostazione gerarchica.
Non sta a me, che non ho titolo alcuno al riguardo e soprattutto manco della preparazione adeguata, indicare soluzioni. Ma il problema lo voglio porre, sia per interpellare le coscienze, sia per sollecitare i Pastori a individuare soluzioni, che mettano riparo a questo smarrimento, sempre più diffuso.
Affidare le nostre parrocchie a sacerdoti stranieri può essere una soluzione. È un gesto di generosità da parte delle chiese “più giovani”, una missionarietà di ritorno, un valore di piena comunione, un segno potente per l’universalità della chiesa. Mi chiedo però: perché non si fa fare loro un percorso di preparazione e di inculturazione rispetto all’ambiente di cura pastorale? I missionari prima di partire lo hanno fatto e lo fanno ancora oggi, imparando non solo la lingua, ma i costumi e le usanze della gente presso cui si recavano, o si recano. E se qualcuno mi obietta che il messaggio cristiano è uguale ovunque, rispondo che, se la sostanza è la stessa, il modo di comunicarlo differisce per linguaggio e cultura; e che la funzione di parroco non comporta solo messa, predicazione e preghiera, senza sminuirne il valore intrinseco.
E ancora mi chiedo: perché non si dà più ampio spazio al diaconato? Che consentirebbe di avere in ogni parrocchia persone con adeguata preparazione per guidare una liturgia, o per assicurare la buona conduzione di attività come la pastorale giovanile, la pastorale delle famiglie, la preparazione al battesimo, la preparazione al matrimonio, la catechesi di preparazione ai sacramenti, o per provvedere alla gestione ordinaria della parrocchia.
E, da ultimo – ma qui rischio la lapidazione! – mi chiedo perché non si pensi in maniera organica, di fronte a questa situazione, all’introduzione di due nuovi istituti: il sacerdozio a uomini sposati, che abbiano dato adeguata testimonianza di vita e che godano di sufficiente stima nella comunità, anche preparandoli adeguatamente; il diaconato alle donne, che in numero sempre maggiore e con una preparazione sempre più alta si sobbarcano, già oggi, di una serie di compiti di grandissima responsabilità: dalla catechesi, alla comunione ai malati; dalla preparazione ai sacramenti, a specifiche attività di pastorale attiva.