Woodstock e la vittoria del Capitalismo

 

UN PILONE A TESTA BASSA

 

Dopo qualche anno torno a scrivere sperando che l’amico e direttore Raniero Lauciani voglia ospitare sulla sua testata on-line una mia rubrica, che come gli editoriali del cartaceo, Quaderni Tuscolani, gradirei si chiamasse ancora: Un pilone a testa bassa. Spero di ritrovare quei quattro affezionati lettori di un tempo e di poterli raggiungere anche con il nuovo formato digitale.

 

Questa estate 2019 è carica di significati personali e sociali che mi spingono a sedermi ancora alla scrivania e a riflettere pigiando i tasti quadrati con lettere bianche, nella speranza di elaborare pensieri compiuti. Era il luglio del 2009, dieci anni or sono, quando persi il caro amico Luca, vidi di colpo terminare la giovinezza senza che la “piccioletta barca” sulla quale mi trovavo, potesse tornare a rivedere i suoi “liti” o avvistare nuove terre all’orizzonte. Era l’agosto del 1969, cinquanta anni or sono, quando una generazione di giovani videro sfumare i confusi ideali di pace e libertà mentre i loro piedi affondavano nel fango di Woodstock.

 

Eredi della Beat Generation gli Hippie che si radunarono a Woodstock sognavano un mondo di pace e fratellanza, la fine della guerra del Vietnam e il superamento del Capitalismo borghese. Tuttavia Woodstock rappresenta l’atto terminale di questo Movimento, un’ultima scarica di adrenalina, un cuore impazzito che non vuole fermarsi, la pressione arteriosa che si impenna e poi… la moda! Uno stile di vita da vendere, come gli “incensi di Diòr” venduti nei “supermercati coi reparti sacri”.

 

Il concerto che si svolse a Bethel, piccola città rurale nello stato di New York, situata a circa 100 km da Woodstock, mantenne il nome della meta originaria, della cittadina che si rifiutò di ospitarli ma che accoglieva spesso i concerti di molti artisti cari al mondo Hippie. Woodstock fin dal XIX secolo è stata un centro d’arte con importanti comunità di artisti attivi, dalla pittura alla musica, una sorta di mecca per artisti, musicisti e scrittori. Questo è il motivo che spinse gli organizzatori (Michael Lang, John P. Roberts, Joel Rosenman e Artie Kornfeld) a scegliere proprio quel luogo e a non cambiare nome anche quando il concerto venne spostato in un’altra città.

 

Il sogno di un mondo di amore e di pace era svanito dalle coscienze americane qualche giorno prima di Woodstock, tra le montagne di Santa Monica ad ovest di Hollywood, in Cielo Drive, nella villa in affitto di Roman Polanski. Qui tra la notte dell’8 e 9 agosto la Manson Family aveva commesso il brutale omicidio della moglie di Polanski, Sharon Tate (incinta di 8 mesi), e dei suoi ospiti. Charles Manson, aspirante cantautore che aveva stretto anche amicizie importanti (Neil Young e Dennis Wilson dei Beach Boys) non riusciva a sfondare nel mondo della musica rock, di quella stessa musica che era attesa a Woodstock; si mise, quindi, a capo di una comunità di sbandati, votata al Demonio, tra esoterismo e ispirazioni hitleriane sconvolse il sogno americano, quel sogno di una vita perfetta: matrimonio, casa, auto, bambini… quella stessa vita borghese criticata dagli hippie perché falsa, conformista, innaturale. Manson rappresenta l’altra faccia dell’America degli anni Sessanta, il contrario della cultura hippie. L’utopia crollerà nel disincanto e i grandi ideali condurranno sempre più verso cocenti disillusioni.

 

A Bethel mezzo milione di Hippie non vollero arrendersi, andarono per gridare al mondo “freedom”, una libertà che costava 7 dollari, questo il prezzo del biglietto, anche se l’arrivo imprevisto di una moltitudine di persone rese difficoltoso il controllo e molti entrarono gratis. Tuttavia in quel momento gli hippie erano diventati un brand, per vendere musica, stili di vita, droghe, oggettistiche varie… Il Capitalismo aveva fagocitato e neutralizzato il figlio ribelle, divenuto una ruota dell’ingranaggio.

 

Il 18 agosto del 1969, mentre Jimmy Hendrix intonava gli ultimi versi di Hey Joe (where you gonna go?) la folla sopravvissuta a tre giorni di eccessi, marjuana, LSD, mescalina, pioggia e fame, abbandonava i 600 acri dell’allevatore Max Yasgur con i piedi che sprofondavano nel fango e nel letame dei campi.